DI PAOLO BALDUZZI, ricercatore in Università Cattolica, dove insegna Scienza delle finanze ai corsi diurni e serali, triennali e magistrali
In cinque articoli la riforma costituzionale del governo cambia radicalmente i rapporti tra elettori, presidente del Consiglio, Presidente della Repubblica e Parlamento. Apre varie problematiche, in particolare con la figura dell’eventuale secondo premier.
I contenuti della proposta
Il Consiglio dei ministri ha approvato, nella seduta del 3 novembre 2023, un disegno di legge costituzionale che prevede l’introduzione in Italia dell’elezione diretta del presidente del Consiglio, oltre a un’altra serie di misure correlate. Ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione, la modifica entrerà in vigore solo dopo due approvazioni da parte di entrambe le Camere; nonché un eventuale referendum, se la seconda approvazione non sarà a maggioranza qualificata. Sarà dunque il tempo a dirci se, all’ennesimo tentativo, il tradizionale parlamentarismo italiano sarà definitivamente superato o se, come nei casi precedenti, il tutto finirà in nulla (o addirittura con la caduta del governo che l’ha proposto, come già accaduto in passato).
Il Ddl costituzionale “Introduzione dell’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio dei ministri e razionalizzazione del rapporto di fiducia” rivoluziona, in soli cinque articoli (quattro, se si escludono le norme transitorie e finali), i rapporti tra elettori, presidente del Consiglio, Presidente della Repubblica e Parlamento.
L’articolo 1 cancella il secondo comma dell’articolo 59 della Costituzione (i senatori a vita di nomina presidenziale): se la riforma sarà approvata, gli unici senatori a vita saranno gli ex Presidenti della Repubblica, fatti salvi i cinque attuali di nomina presidenziale, che rimarranno in carica grazie all’articolo 5 del Ddl.
L’articolo 2 cancella le parole “o anche una sola di esse” dal primo comma dell’articolo 88 della Costituzione: il Presidente della Repubblica potrà sciogliere le due Camere solo contemporaneamente e non avrà più la possibilità di scioglierne una sola. A dire il vero, il potere di sciogliere una sola camera (nello specifico, il Senato della repubblica) è stato usato solo tre volte nella storia repubblicana e fintantoché Camera e Senato avevano durata diversa, cioè fino al 1963. L’eliminazione di questa facoltà appare piuttosto logica e, anzi, ci sarebbe da chiedersi perché non sia stata cancellata prima dal legislatore.
L’articolo 3 invece sostituisce completamente l’articolo 92 della Costituzione e introduce l’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri, che resta in carica cinque anni. Le votazioni per l’elezione del capo del governo e delle Camere avvengono tramite un’unica scheda elettorale. Per assicurare al presidente del Consiglio una maggioranza solida, almeno sulla carta, il nuovo articolo 92 prevede anche che la legge elettorale debba assicurare “un premio, assegnato su base nazionale, [che] garantisca il 55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al presidente del Consiglio dei ministri”. Si prevede inoltre che il presidente del Consiglio sia un parlamentare. Non viene cambiato invece l’articolo 57 della Costituzione, secondo cui il Senato sarebbe comunque eletto “su base regionale”: questo elemento potrebbe creare qualche problema di costituzionalità con il premio di maggioranza assegnato su base nazionale.
L’articolo 4 modifica l’articolo 94 della Costituzione in due punti: innanzitutto, resta il vincolo di fiducia tra governo e Parlamento. Nell’eventualità che il “presidente eletto” (così chiamato dal Ddl) non ottenga la fiducia al primo tentativo, potrà tentare una seconda volta; dopo il secondo tentativo fallito, “il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”. In secondo luogo, il nuovo articolo 94 prevederebbe, se approvato, che in caso di “cessazione dalla carica del presidente del Consiglio eletto, il Presidente delle Repubblica [possa] conferire l’incarico di formare il governo al presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto ha ottenuto la fiducia”. Se questo tentativo non andasse in porto, al Presidente della Repubblica non resterebbe che procedere con lo scioglimento delle Camere.
Come al solito, a seconda di chi ne parla, la riforma è presentata in maniera completamente diversa. Si tratta dunque della “madre di tutte le riforme”, come l’ha definita Giorgia Meloni, oppure di un tentativo eversivo, come ritengono le opposizioni? Se guardassimo al programma elettorale di Fratelli d’Italia, che proponeva il presidenzialismo (cioè l’elezione diretta del capo dello stato, che è anche capo del governo), allora potremmo concludere che si tratta della classica montagna che ha partorito, se non il proverbiale topolino, qualcosa che gli assomiglia molto (la “semplice” elezione diretta di un presidente del Consiglio “sostituibile”). Sì, perché date le premesse, per la maggioranza il Ddl proposto dovrebbe già apparire un evidente compromesso al ribasso. Per chi ha la memoria un po’ più lunga, di fatto, metà dei contenuti del Ddl erano, e sono, il cavallo di battaglia di Matteo Renzi, colui che più di recente ha sponsorizzato il premierato nella versione “sindaco d’Italia”, cioè elezione diretta del premier e contestuale premio di maggioranza.
Tra il dire e il fare c’è comunque di mezzo il mare: è molto difficile che il testo, nella sua versione attuale, possa essere approvato così com’è, sia per questioni tecniche sia per questioni più squisitamente politiche. Le prerogative del capo dello stato rimangono quasi identiche, è vero. Ma la sua libertà di scelta di nomina del presidente del Consiglio è drasticamente ridotta: oltre al presidente eletto, anche l’eventuale sostituto dovrà essere scelto necessariamente all’interno del Parlamento e, in particolare, all’interno della stessa maggioranza che ha vinto le elezioni.
Si tratta forse di uno degli elementi più controversi del provvedimento. Da un lato, perché, nell’ambito di un sistema che prevede l’elezione diretta del capo del governo, ha davvero poco senso dare la possibilità al Parlamento di sostituirlo senza che ciò provochi allo stesso tempo una cessazione di attività delle Camere (cosiddetto “simul simul”). Dall’altro perché, paradossalmente, sembra assegnare maggiore potere al secondo presidente, insostituibile se non a costo di nuove elezioni. In più si capisce poco perché lo stesso presidente del Consiglio eletto debba essere un parlamentare. Se vincente, non si siederà mai in Parlamento, se non in caso venga sostituito. Una specie di premio di consolazione? Forse. Stesso premio di consolazione per i candidati a presidente del Consiglio non eletti, cioè quelli degli altri schieramenti. Col dubbio, poco probabile ma comunque sempre possibile, di avere una coalizione vincente, ma un presidente non eletto come parlamentare: cosa succederebbe in questo caso? E ancora: che senso ha il voto di fiducia delle Camere al governo presieduto presidente del Consiglio eletto? È un voto sull’intero governo, e quindi anche sui ministri? È anche piuttosto strano, peraltro, che il premier eletto possa solo “proporre” e non “nominare” i ministri (esattamente come avviene ora). Il presidente del Consiglio è quindi eletto direttamente o è solo “fortemente suggerito” dal corpo elettorale? Inoltre, nonostante la maggioranza sembri compatta sulla riforma, è tutto da verificare che il Parlamento sia davvero pronto a rinunciare alla sua libertà di esercitare la sfiducia in maniera ampia, lasciando al Presidente della Repubblica il compito di sbrogliare eventuali matasse politiche.
Molti dubbi anche sulla previsione di un premio di maggioranza del 55 per cento: il Ddl rimanda alla legge elettorale per i dettagli. Significa che, per applicare la riforma costituzionale, non basterà l’approvazione del Ddl ma servirà anche una nuova legge elettorale. Seguendo l’orientamento della Consulta, dovrà prevedere una soglia minima per ottenere il premio di maggioranza su base nazionale, pena la dichiarazione di incostituzionalità come già successo in casi precedenti, salvo il ricorso a un secondo turno di voto (ballottaggio).
Per il momento, la questione elettorale, per quanto dirimente, è lasciata ai margini e rimandata alla legislazione ordinaria. Potrebbe essere una buona idea quella di “blindare” nella stessa Costituzione proprio una legge elettorale adatta al nuovo disegno, così da evitare che, in futuro, il legislatore stravolga, abusi o entri in conflitto con la Consulta sulla questione.
Sulla figura dei senatori a vita cala l’accetta della riforma. Certamente si tratta di una misura simbolica, che non limita né aumenta il grado di democrazia del paese, ma questa tradizione si sarebbe potuta salvare semplicemente diminuendo il numero di senatori nominabili dal Presidente della Repubblica, magari utilizzando la stessa proporzione con cui sono stati tagliati i parlamentari (per esempio, circa un terzo).
Dal punto di vista politico, le curiosità principali riguardano sia le sorti del provvedimento sia alcune sue conseguenze.
Sulla prima questione, da più parti si collega il premierato all’autonomia differenziata, come se i due temi fossero in qualche modo collegati dal punto di vista dei cosiddetti “check and balances”. In realtà, si tratterebbe solo di una compensazione politica tra alleati (Fratelli d’Italia e la Lega, naturalmente). Con buona probabilità tra qui e le elezioni europee, dovremmo dunque attenderci anche ulteriori sviluppi sull’applicazione del comma 3 dell’articolo 116 della Costituzione. Vedremo.
Inoltre, se mai la riforma dovesse arrivare in porto, sarà interessante vedere come si svolgerà la coabitazione tra un presidente del Consiglio direttamente eletto e un Presidente della Repubblica eletto in maniera tradizionale.
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