Tratto da lavoce.info
DI DANIELE CHECCHI, professore di economia del lavoro all’Università Statale di Milano. Attualmente Dirigente del Centro Studi e Ricerche di Inps
E TULLIO JAPPELLI, professore di Economia Politica presso l’Università di Napoli Federico II e Research Fellow del CEPR
Tra le più alte nei paesi Ocse, la disuguaglianza di reddito in Italia è cresciuta nettamente all’inizio degli anni Novanta e ha fatto un balzo ulteriore durante la pandemia. Potrebbe essere riconducibile alla maggiore flessibilità del mercato del lavoro.
Disuguaglianze di reddito nel periodo 1990-2020
Dal 1990 l’Italia ha attraversato quattro recessioni originate da shock molto diversi: la stabilizzazione del debito dopo il trattato di Maastricht, la crisi finanziaria, la crisi del debito sovrano e la pandemia. Ogni recessione è stata seguita da riprese contenute, producendo un periodo complessivo di crescita stagnante. Ciò si è riflesso in una bassa crescita della produttività e dei salari reali. Nel periodo, il paese ha registrato un aumento della partecipazione al mercato del lavoro, una maggiore flessibilità nella regolamentazione, una frammentazione degli orari di lavoro e una crescita di forme di lavoro part-time. Le recessioni si sono innestate in uno storico divario territoriale, che non si è ridotto nel periodo considerato. Dal momento che la domanda complessiva di ore lavorate non è aumentata (in termini di unità standard di lavoro), la frammentazione delle opportunità di lavoro è associata a un aumento della quota di lavoratori con bassi salari.
Tra i paesi Ocse, l’Italia si colloca ai primi posti in termini di disuguaglianza di reddito. La figura 1 mostra la classifica di una delle tante misure disponibili della disuguaglianza di reddito (l’indice Gini del reddito disponibile) utilizzando i dati del Luxembourg Income Studies (Lis) e il 2016 come anno di riferimento. I dati sono standardizzati, prendendo come riferimento il valore relativo all’Italia (in cui l’indice di Gini è pari a 0,336). La figura mostra che in termini di disuguaglianza il nostro paese occupa la terza posizione, dopo Stati Uniti e Spagna. La Germania, la Francia e la maggior parte degli altri paesi europei presentano indici di Gini inferiori del 10-20 per cento rispetto al nostro paese. Nell’ambito del progetto “The IFS Deaton Review” coordinato dall’Institute of Fiscal Studies di Londra, abbiamo evidenziato che in Italia la disuguaglianza tra i redditi della popolazione in età lavorativa è cresciuta considerevolmente all’inizio degli anni Novanta, è rimasta a un livello elevato fino al 2015 ed è ulteriormente aumentata durante l’anno della pandemia. L’evidenza storica indica una lenta riduzione della disuguaglianza dei redditi – misurata dall’indice di Gini – dall’inizio degli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta e un aumento della disuguaglianza negli anni Novanta. Un altro studio mostra che la dinamica della disuguaglianza differisce a seconda delle diverse fonti di dati, definizioni delle variabili e popolazione di riferimento.
I dati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia mostrano che la percentuale di persone che dichiarano di essere occupate a tempo parziale è molto più alta per le donne ed è aumentata notevolmente negli ultimi tre decenni. L’indagine rileva anche che il premio di genere (il rapporto tra la retribuzione media maschile e quella femminile) e il premio per l’istruzione (il rapporto tra la retribuzione media dei laureati e dei non laureati) sono aumentati considerevolmente negli ultimi anni, e in particolare durante la crisi Covid. Infine, il forte aumento dell’occupazione part-time e a tempo determinato aumenta la disuguaglianza nei guadagni attraverso un drastico cambiamento nella dispersione delle ore annuali lavorate tra i posti di lavoro. Come rilevato dai dati dell’Indagine della Banca d’Italia, la disuguaglianza delle retribuzioni nette della popolazione in età da lavoro è cresciuta, portando l’indice di Gini dal 0,25 nel 1989 a 0,32 nel 2020 (figura 3). L’indice di Gini del reddito disponibile per la fascia di età 25-55 anni segue lo stesso andamento – passa da 0,28 nel 1989 a 0,34 nel 2020 -, evidenziando che la disuguaglianza nel reddito disponibile è dello stesso ordine di grandezza della disuguaglianza delle retribuzioni nette e che l’anno della pandemia ha comportato un ulteriore aumento della disuguaglianza. Analoga dinamica si registra se si utilizzano le retribuzioni lorde provenienti da fonti amministrative.
La possibile spiegazione La spiegazione più probabile dell’aumento della disuguaglianza dei redditi è l’accresciuta flessibilità del mercato del lavoro a seguito delle riforme degli ultimi tre decenni, e cioè la riforma Treu del 1997, la riforma Biagi del 2003 e il Jobs act del 2015. I canali sono almeno due: il forte aumento del part-time, principalmente per quanto riguarda le donne (figura 2), e il ricorso crescente da parte delle imprese a contratti a termine, che operano anche come segnale sulla carriera retributiva futura (figura 5 e qui). Anche Eran Hoffmann, Davide Malacrino e Luigi Pistaferri, utilizzando dati amministrativi di fonte Inps, concludono che negli ultimi tre decenni la disuguaglianza delle retribuzioni è aumentata sia per gli uomini che per le donne, e che “la sequenza di riforme del mercato del lavoro attuate dalla fine degli anni Novanta è la più probabile spiegazione per entrambe le tendenze”.
Scomponendo la dinamica del reddito per posizione reddituale, si nota che negli ultimi tre decenni la metà inferiore della distribuzione ha registrato un calo significativo delle retribuzioni reali, mentre la metà superiore della distribuzione ha registrato una crescita modesta, inferiore allo 0,5 per cento annuo (figura 6).
L’allargamento della polarizzazione delle retribuzioni è coerente anche con una limitata mobilità infra-generazionale dei redditi, come evidenziato dalla correlazione tra percentili di reddito degli stessi lavoratori osservati in periodi successivi nella componente panel dell’Indagine.
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